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Una scuola senza poesia

  Della scuola non si smette di parlare, la sovrabbondanza di analisi la sommerge, ma il dato chiaro è che da anni la scuola ha smesso di essere un luogo di cultura. Recentemente tutta la colpa del crollo degli apprendimenti è stata attribuita alla DAD: la full immersion nel digitale ha prodotto un lockdown cognitivo, ragazzi smarriti e depressi hanno perso ogni motivazione allo studio, nella migliore delle interpretazioni hanno affinato le tecniche volte a gabbare i docenti, copiando e industriandosi a leggere da varie fonti durante le verifiche orali. Non sono mancate critiche agli insegnanti: impreparati all’uso del web, bisognosi di formazione, i soliti scansafatiche ben felici di restare a casa a beneficiare della comodità della didattica digitale, si sarebbero limitati a fare il minimo indispensabile. Gli effetti di questa catastrofe sarebbero testimoniati e certificati dai pessimi risultati conseguiti dalle scuole nei test Invalsi. Ogni sintesi forse ha il difetto di sem

L'ideologico entusiasmo per la scuola in presenza

  Sulle pagine del Corriere della Sera, Galli Della Loggia ha scritto una severa tirata contro la DAD, intitolando il suo articolo: L’incomprensibile entusiasmo per la “DAD” . Ha inserito in queste righe tutte le banalità che di solito chi non s’intende di scuola accumula in poche parole: la didattica digitale non è scuola, esclude le fasce più povere e meridionali della popolazione. Sì, “meridionali”, aggettivo abbinato a “povere”: accostare i due concetti nasce dal pregiudizio secondo cui al Sud la civiltà ancora non arriva, e quindi il Sud non è Italia, o forse dall’amara constatazione - e se è così, il concetto andrebbe spiegato meglio - che le risorse economiche stanziate per il Sud inspiegabilmente vengono dirottate al Nord. Ma non è questo il punto focale della questione sollevata da Galli Della Loggia, sebbene meriti un approfondimento storico-politico e una riflessione su un problema forse ancora irrisolto che a suo tempo sollevò Giustino Fortunato in una lettera dl 1899 a Pas

IL MAGICO MONDO DELLA MINISTRA AZZOLINA

  Partiamo da un presupposto e sgombriamo il campo da equivoci: la DAD non è il massimo, i docenti non sono tutti tecnofanatici, la scuola è relazione e senza socializzare i ragazzi non crescono bene. Però c’è il covid-19, un virus che stando ai dati della Protezione civile miete vittime e fa registrare ogni giorno migliaia di contagiati: alcuni finiscono in ospedale, altri sono asintomatici, ma possono diffondere il virus. Il Presidente del Consiglio emana disposizioni restrittive per arginare l’epidemia, decreta la dolorosa chiusura di attività, i Presidenti delle Regioni - con De Luca capofila sostenuto dal parere favorevole del TAR Campania – ribadiscono che le scuole sono focolai di contagi, evidenziano la necessità di ricorrere alla DAD. E invece la Ministra dell’Istruzione dice NO, perché dal suo punto di vista i contagi sono pochi e perciò i ragazzi devono andare a scuola in presenza “e ci devono rimanere”, aggiunge con tono determinato da facebook e twitter. Che poi la sta

Scuola: il "rientro in sicurezza"

 Chi  non lavora nella scuola non può immaginare la confusione che in questi giorni la sta affliggendo. Non è necessario ripetere ciò che da mesi è sotto gli occhi di tutti. L'attenzione è stata volutamente deviata sulle pseudosoluzioni come il rinnovo degli arredi scolastici e l'acquisto di banchi monoposto o sedie con le rotelle, quando, a dire ilvero, la difficoltà di rispettare il distanziamento e di far usare correttamente la mascherina agli studenti, restano problemi insormontabili. Stiamo parlando di adolescenti, persone vive, in crescita, con ovvie esigenze di costruzione della consapevolezza della propria corporeità anche in rapporto allo spazio. I ragazzi in classe si muovono: il metro di distanza tra le "rime buccali" - ammesso che sia sufficiente per evitare i contagi - non potrà essere mantenuto costantemente. Risulta, poi, impensabile e ingenuo - se non ipocrita - suggerire l'uso delle mascherine a scuola: chi riesce a tenerle per 5/6 ore di seguito,

Non è questione di metodo, ma di sfumature.

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Non mi soffermerò sulle criticità della didattica a distanza. Si è detto abbastanza. Della scuola parlano tutti: sui social è un pullulare di pareri, opinioni, giudizi, valutazioni. E tutti sembrano d’accordo su un dato: la scuola ha bisogno di una spinta in avanti, va innovata. E chi nelle videolezioni in questa fase pandemica ha riprodotto i sistemi della lezione frontale, si è “limitato”, cioè, a parlare con gli studenti, ha sbagliato. I ragazzi hanno bisogno di “fare”, devono procedere per “ricerca-azione”, si suggerisce da più parti. L’insegnamento non deve più affidarsi alla parola: è questo il nuovo diktat didattico. Eppure è attraverso la parola, detta, scambiata, a volte ripetuta, pronunciata con passione, che passano conoscenze, sentimenti, emozioni. Con la parola si cresce. Le fiabe servono a questo, perciò le raccontiamo ai bambini. E, invece, oggi la parola è temuta, screditata a vantaggio degli strumenti tecnologici, ritenuti addirittura in molti casi sostitutivi

Il COVID-19 E LA SCUOLA

L’abbiamo sempre data per scontata… la libertà. Poi arrivano certe ventate della storia e la cancellano, in un attimo. Mariangela Gualtieri, l’ha scritto in modo mirabile: adesso lo sappiamo quanto è/ triste/ stare lontani un metro. Quello che ci manca è l’alterazione della nostra natura di animali sociali, fatti strutturalmente per la relazione. Ma è l’epidemia, va così, dobbiamo accettarlo: distanziamento sociale, contenimento del coronavirus. Eppure c’è uno spazio in cui è proprio inaccettabile la perdita della libertà, perché si tratta di una dimensione in cui nulla, neppure l’emergenza sanitaria, la giustifica: lo spazio della scuola. Se ne è parlato tanto, tutti i giornali   e i notiziari hanno affrontato il tema della didattica a distanza, hanno considerato tutte le sfaccettature della questione: indigestione di tecnologia, connessioni che non sempre reggono, collegamenti live tra docenti e studenti, videoconferenze che salvano la dimensione relazionale della scuola, doce

Bussetti, l'INVALSI, il Sud

Si è detto molto, forse troppo, sull’ultimo rapporto INVALSI. Il dato è chiaro: gli studenti del Sud non comprendono quello che leggono e con la matematica non va meglio. Questa informazione rimbalza sulle testate giornalistiche e sui social diventando la dimostrazione logica di un teorema da tempo elaborato, l’alibi giustificativo per l’attuazione di politiche emancipatorie dal peso di uno scomodo Mezzogiorno. Gli esperti si sono lungamente spesi sull’insensatezza e sul carattere antipedagogico dei test standardizzati, quindi è superfluo parlarne. Risulterebbe poi ripetitivo – se ne è discusso tanto – sottolineare la forte iniquità sottesa alla imposizione di questionari omogeneizzanti a studenti, scuole, realtà che omogenee non sono: non occorrono, infatti, i report INVALSI per apprendere che c’è differenza tra i risultati conseguiti dagli studenti del Nord metropolitano e quelli ottenuti da alunni iscritti in scuole di piccoli borghi situati nell’entroterra di qualche area sperduta