Una scuola senza poesia
Della scuola non si smette di parlare,
la sovrabbondanza di analisi la sommerge, ma il dato chiaro è che da anni la
scuola ha smesso di essere un luogo di cultura.
Recentemente tutta la colpa del
crollo degli apprendimenti è stata attribuita alla DAD: la full immersion nel
digitale ha prodotto un lockdown cognitivo, ragazzi smarriti e depressi hanno perso
ogni motivazione allo studio, nella migliore delle interpretazioni hanno
affinato le tecniche volte a gabbare i docenti, copiando e industriandosi a
leggere da varie fonti durante le verifiche orali.
Non sono mancate critiche agli
insegnanti: impreparati all’uso del web, bisognosi di formazione, i soliti scansafatiche
ben felici di restare a casa a beneficiare della comodità della didattica
digitale, si sarebbero limitati a fare il minimo indispensabile.
Gli effetti di questa catastrofe
sarebbero testimoniati e certificati dai pessimi risultati conseguiti dalle
scuole nei test Invalsi.
Ogni sintesi forse ha il difetto
di semplificare, ma in buona sostanza la realtà è questa: il tanto auspicato
digitale fa acqua da tutte le parti e i docenti sono il capro espiatorio su cui
scaricare gli annosi mali della scuola. Certo, è innegabile che ci sarà stato qualcuno
che ha lavorato poco e male – si tratta di un dato che peraltro sarà stato
registrato anche in altri ambiti lavorativi transitati allo smartworking, che
per certi aspetti potremmo considerare omologo alla DAD - ma non si può assolutamente
negare lo sforzo compiuto dalla maggioranza degli insegnanti che, senza mai venir
meno alle loro responsabilità educative, hanno incoraggiato studenti disorientati
e rassicurato genitori in ansia per le inedite difficoltà scolastiche del
periodo pandemico.
A dire il vero a rappresentare le
reali difficoltà della scuola non sono i docenti (anche se forse fa comodo a
molti pensare il contrario) né il digitale in sé (piuttosto alla scuola ha
fatto male l’acritica celebrazione della didattica digitale negli anni
precedenti alla diffusione del COVID 19).
Il vero problema della scuola è
in chi la dirige: non tanto i dirigenti scolastici che sono ormai stati ridotti
a meri burocrati, esecutori di direttive che devono obbligatoriamente applicare,
ma proprio la politica che da anni con la sua inadeguatezza ha prodotto riforme scolastiche apportando piccole e insignificanti variazioni a un’idea portante che accomuna tutti
i provvedimenti finora assunti: impoverire la scuola di contenuti, depauperarla culturalmente,
renderla uno spazio ludico-aggregativo e di socializzazione (parola su cui si è insistito fino alla nausea e con tanta
retorica, anche nei tempi in cui la malattia pandemica imperversava e
socializzare era impossibile). Da anni ormai i politici di ogni orientamento si sono impegnati a trasformare la scuola in luogo di
addestramento alle logiche del mercato attraverso i percorsi di alternanza
scuola-lavoro che, sì, hanno cambiato nome (da ASL in PCTO, acronimo di “Percorsi
per le Competenze Trasversali e l’Orientamento”), ma non la sostanza neoliberistica
che li contraddistingue. A ciò si aggiunga la curvatura della didattica verso
azioni ipervalutative, certificative, testificatrici che trovano nel Leviatano
Invalsi la quintessenza della distruzione, la “rottamazione” di ogni senso
formativo e culturale che la scuola – quella che Calamandrei sognava – dovrebbe
avere.
Un simile spirito incendiario da
anni aleggia nelle stanze ministeriali e sta operando progressivamente e in
modo costante per bruciare ogni traccia di ciò che si dovrebbe intendere quando
si pronuncia la parola “scuola”.
Le conoscenze sono state sostituite
da vaghe e non precisate, o comunque parziali, “competenze”, con il risultato della
reductio ad unum di buona parte degli insegnamenti umanistici veicolati
attraverso le letterature classiche, moderne e contemporanee, a “competenze
linguistiche” comprese nel cosiddetto “asse dei linguaggi”, come se la funzione
della lingua fosse solo la comunicazione di informazioni e non anche la
trasmissione di un patrimonio di emozioni, sentimenti e valori che sono
appannaggio della poesia. E la poesia, sia sa, non adotta certo il codice
comunicativo ordinario: quindi non serve direttamente ad acquisire “competenze
linguisitiche” fruibili per la comunicazione e spendibili sul mercato del
lavoro che a quanto pare è ormai l’unico orizzonte a cui la scuola è asservita.
Allora, ne facciamo a meno?
In effetti sembrerebbe questa la
soluzione finale: incentivare le STEM, le discipline scientifico-matematiche, e
subordinare alla funzione comunicativa la didattica delle discipline letterarie.
Risulta paradossale, poi, che si
insista tanto sulle competenze comunicative in un momento storico in cui la
discussione, il parlamentarismo, la democrazia sembrano essere sclerotizzate da
forme di insofferenza per ogni mediazione affidata alla parola: dalla dirompenza del "vaffa" in poi, il linguaggio è scaduto, spesso è trivializzato, l’uso di
piattaforme digitali per il confronto con i cittadini è ormai trasversale alle
varie formazioni politiche e il sogno della disintermediazione, della seduzione via
social per ottenere consensi e far crescere followers, sono ormai l’atteggiamento
più diffuso nei leader politici: un surrogato della democrazia, non certo l’espressione
di una visione della politica veramente
dialogante.
I politici non si esprimono
più con discorsi capaci di emozionare e persuadere, perché non sanno
immaginare, non sanno sognare e far sognare, non sono capaci di evocare, non possiedono una visione alternativa alla mediocrità del presente e perciò non sanno suggerire niente che non sia rabbia. Al loro linguaggio manca lo slancio della poesia, i loro miseri
concetti sono privi della fantasia che ci vuole – diceva Gramsci – per saper “sentire”
il dolore di chi soffre e porvi rimedio.
Oggi le competenze linguistiche che
le nuove tendenze didattiche vogliono potenziare forse mirano a costruire individui
capaci di battagliare a parole – come negli anni declinanti della democrazia
greca – ma del tutto inadeguati a penetrare l’animo umano.
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