Non è questione di metodo, ma di sfumature.
Non mi soffermerò sulle criticità della didattica a distanza.
Si è detto abbastanza.
Della scuola parlano tutti: sui social è un pullulare di pareri,
opinioni, giudizi, valutazioni. E tutti sembrano d’accordo su un dato: la
scuola ha bisogno di una spinta in avanti, va innovata. E chi nelle
videolezioni in questa fase pandemica ha riprodotto i sistemi della lezione
frontale, si è “limitato”, cioè, a parlare con gli studenti, ha sbagliato. I
ragazzi hanno bisogno di “fare”, devono procedere per “ricerca-azione”, si
suggerisce da più parti.
L’insegnamento non deve più affidarsi alla parola: è questo il
nuovo diktat didattico. Eppure è attraverso la parola, detta, scambiata, a
volte ripetuta, pronunciata con passione, che passano conoscenze, sentimenti,
emozioni. Con la parola si cresce. Le fiabe servono a questo, perciò le
raccontiamo ai bambini. E, invece, oggi la parola è temuta, screditata a
vantaggio degli strumenti tecnologici, ritenuti addirittura in molti casi sostitutivi
e più efficaci della comunicazione verbale.
Si tratta di una questione antica, che già Pasolini affrontava,
dalla sua prospettiva critica, in Romàns:
ho letto qualcosa
dei moderni metodi scolastici (l’attivismo) che si valgono appunto di mezzi che
non siano la pura relazione oratoria dell’insegnante, sacrificando la
tradizionale autorità di quest’ultimo per la partecipazione attiva dei ragazzi.
È
essenzialmente giusto, però…per far studiare i ragazzi volentieri, “entusiasmarli”,
occorre ben altro che adottare un metodo più moderno e intelligente. Si tratta
di sfumature, di sfumature rischiose ed emozionanti.
Il linguaggio della scuola che i nostri figli frequentano è
lo specchio di una società senz’anima: termini aziendalistici, sigle
cacofoniche, specialismi criptici. Anche le discipline umanistiche che più di
tutte dovrebbero esprimere l’ineliminabile esigenza di comunicare la bellezza, sono
ingabbiate in griglie valutative, in schede di analisi testuali, in protocolli
procedurali (le “tipologie di verifica previste all’Esame di Stato”), che
abbattono ogni desiderio di lettura e di scrittura, ogni gusto, ogni tensione
estetica, ogni slancio etico.
E i docenti accettano. Spesso osannano i nuovi mezzi senza
accorgersi che si stanno trasformando in fini, celebrano acriticamente le nuove
didattiche, anzi se ne fanno animatori, le propagandano, collaborando, così,
ingenuamente, alla nascita di una società anaffettiva.
Non è colpa del Covid19. La patologia della scuola è
iniziata molto prima. E la didattica digitale non è il male assoluto: ha
aiutato molto in questi mesi di emergenza sanitaria. Il problema è un’idea di scuola
che ormai si è consolidata: una scuola che non parla, una scuola che non fa
sognare, una scuola che accetta e non vaglia, una scuola che si riduce a “metodo”
e che non ha anima, una scuola che accelera senza specchietto retrovisore, e teme
la tradizione perché la vede solo ancorata al passato, quando invece essa è il
legame con il futuro. Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione
è il mio amore. / (…) Mostruoso è chi è nato dalle viscere di una donna morta.
Sono ancora versi di Pasolini: tagliare i ponti con la tradizione significa non
avere linfa vitale. E lo diceva lui, che certamente era critico verso forme di
retrivo conservatorismo.
Rileggendo Romàns mi sono accorta che Pasolini scrive
una frase scomoda, perché tocca un punto nevralgico del mondo scolastico: può
educare solo chi sa che cosa significa amare.
Non è questione di metodo, ma di sfumature.
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