"Fare politica" a scuola
Uno degli ultimi tweet di Salvini sulla scuola lascia sgomenti: per fortuna gli insegnanti che fanno politica a scuola (guarda caso sempre pro-sinistra e pro-immigrazione) sono sempre di meno, avanti futuro!.
Ipotizzare una scuola a-politica sarebbe per il Ministro Salvini un passo avanti verso il futuro.
Non è chiaro, invece, che il silenzio politico, la censura o l'autocensura determinata da paura, sono l'humus tipico delle dittature. Ma, è evidente, per saperlo occorre aver studiato l'avvento e l'affermazione dei regimi dittatoriali almeno nella recente storia italiana.
In nome dell'articolo 33 della Costituzione italiana ancora in vigore, i docenti, invece, non possono esimersi dal dovere morale di insegnare liberamente e, dunque, di "fare politica", non quella faziosa delle tifoserie di partito, ma quella nobile che punta alla costruzione di una polis umana. L'obiettivo della scuola è, infatti, formare persone capaci di pensare in modo critico, di non farsi manipolare, di agire in nome del bene comune superando ottiche individualistiche, contestando condotte primitive che inneggiano ai razzismi o alla difesa di orticelli nazionalistici, consapevoli del fatto che la sola razza esistente al mondo è quella umana.
Perciò - il Ministro Salvini se ne faccia una ragione - noi docenti continueremo a "fare politica". In fondo nella scuola tutto è politica, perché ogni azione didattica si pone come obiettivo fondamentale la formazione di cittadini consapevoli che sappiano almeno distinguere qual è il contesto giusto per fare selfie, che tengano in giusta considerazione il prossimo, il suo dolore .
Quando si sceglie un manuale di letteratura che antologizza brani tratti dalle opere di Gobetti e Gramsci e non solo poesie di Baudelaire, si compie un gesto politico. Quando si assegna in lettura ad una classe "E tu splendi" di Giuseppe Catozzella, romanzo sul dramma dei migranti filtrato dagli occhi di un bambino, invece di "Divorare il cielo" Di Paolo Giordano, libro a impianto profondamente introspettivo e non propositivo, si fa politica. Avviare un dibattito con Don Ciotti e partecipare con la propria scuola alla marcia di Libera significa "fare politica". Svolgere - a costo zero - progetti riguardanti il femminicidio e la violenza di genere, insegnare a i giovani che per farsi sentire non c'è bisogno di alzare la voce e che "comunicare" significa prima di tutto saper ascoltare, ecco, sì, questo è un atto politico.
Dare spazio ai ragazzi alle loro esigenze, ai loro desideri, parlare CON loro e non solo A loro, far capire ai giovani che ogni gesto in classe nasce da ciò che noi docenti sogniamo per i nostri giovani, per il loro futuro, impegnarci non solo a immaginare, ma anche a realizzare il disegno di una società migliore, più solidale e più altruistica, significa, in fondo, una sola cosa: "fare politica".
Mostrare con franchezza come è il mondo e cercare di infondere nei giovani la fiducia nelle proprie possibilità per poterlo migliorare, è senza dubbio un atto politico.
Ipotizzare una scuola a-politica sarebbe per il Ministro Salvini un passo avanti verso il futuro.
Non è chiaro, invece, che il silenzio politico, la censura o l'autocensura determinata da paura, sono l'humus tipico delle dittature. Ma, è evidente, per saperlo occorre aver studiato l'avvento e l'affermazione dei regimi dittatoriali almeno nella recente storia italiana.
In nome dell'articolo 33 della Costituzione italiana ancora in vigore, i docenti, invece, non possono esimersi dal dovere morale di insegnare liberamente e, dunque, di "fare politica", non quella faziosa delle tifoserie di partito, ma quella nobile che punta alla costruzione di una polis umana. L'obiettivo della scuola è, infatti, formare persone capaci di pensare in modo critico, di non farsi manipolare, di agire in nome del bene comune superando ottiche individualistiche, contestando condotte primitive che inneggiano ai razzismi o alla difesa di orticelli nazionalistici, consapevoli del fatto che la sola razza esistente al mondo è quella umana.
Perciò - il Ministro Salvini se ne faccia una ragione - noi docenti continueremo a "fare politica". In fondo nella scuola tutto è politica, perché ogni azione didattica si pone come obiettivo fondamentale la formazione di cittadini consapevoli che sappiano almeno distinguere qual è il contesto giusto per fare selfie, che tengano in giusta considerazione il prossimo, il suo dolore .
Quando si sceglie un manuale di letteratura che antologizza brani tratti dalle opere di Gobetti e Gramsci e non solo poesie di Baudelaire, si compie un gesto politico. Quando si assegna in lettura ad una classe "E tu splendi" di Giuseppe Catozzella, romanzo sul dramma dei migranti filtrato dagli occhi di un bambino, invece di "Divorare il cielo" Di Paolo Giordano, libro a impianto profondamente introspettivo e non propositivo, si fa politica. Avviare un dibattito con Don Ciotti e partecipare con la propria scuola alla marcia di Libera significa "fare politica". Svolgere - a costo zero - progetti riguardanti il femminicidio e la violenza di genere, insegnare a i giovani che per farsi sentire non c'è bisogno di alzare la voce e che "comunicare" significa prima di tutto saper ascoltare, ecco, sì, questo è un atto politico.
Dare spazio ai ragazzi alle loro esigenze, ai loro desideri, parlare CON loro e non solo A loro, far capire ai giovani che ogni gesto in classe nasce da ciò che noi docenti sogniamo per i nostri giovani, per il loro futuro, impegnarci non solo a immaginare, ma anche a realizzare il disegno di una società migliore, più solidale e più altruistica, significa, in fondo, una sola cosa: "fare politica".
Mostrare con franchezza come è il mondo e cercare di infondere nei giovani la fiducia nelle proprie possibilità per poterlo migliorare, è senza dubbio un atto politico.
C’è pure chi educa, senza nascondere
l'assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d'essere franco all'altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:ciascuno cresce solo se sognato
(Danilo Dolci)
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